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Dante Alighieri

Nacque a Firenze nel maggio del 1265 da Alighiero, di famiglia guelfa nobile ma non ricca. Presso scuole e maestri, a Firenze e Bologna, apprese l'arte retorica e da se stesso l'arte di "dir parole per rima", cui si dedicņ con ingegno e passione fin dai primi anni della giovinezza. Fu amico di molti poeti e soprattutto di Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e Cino da Pistoia, coi quali ebbe, secondo l'uso del tempo, una corrispondenza in versi. A 18 anni si innamorņ di Beatrice, figlia di Folco Portinari andata poi sposa a Simone dei Bardi,e per lei scrisse numerose rime alla maniera stilnovistica. Dopo la morte di lei,avvenuta nel 1290,si dedicņ con maggiore impegno ai suoi studi, che riguardavano i classici antichi e le opere letterarie moderne italiane, francesi e provenzali, la teologia, la politica, la filosofia, la retorica, l'arte, la lingua. Per partecipare alla vita politica di Firenze si iscrisse all'arte dei medici e speziali. A quel tempo i guelfi di Firenze, dopo aver cacciato i ghibellini dalla cittą, s'erano divisi in due fazioni: i Bianchi, capeggiati dalla famiglia dei Cerchi, ed i Neri, guidati dai Donati. Dante appoggiņ i primi, pił gelosi dell'indipendenza della propria cittą, pur avendo sposato una Donati, Gemma, dalla quale ebbe tre figli, Iacopo, Pietro ed Antonia, che poi divenne suora ed assunse il nome di Beatrice. Tra il 1295 e il 1296 fece parte del Consiglio speciale del Capitano del Popolo e del Consiglio dei Cento. Dal 15 giugno al 15 agosto del 1300 fu uno dei Priori. L'anno successivo i Neri, con l'aiuto di Carlo di Valois, inviato dal Papa Bonifacio VIII, si impadronirono del potere, mettendo al bando i Bianchi. Dante, che si era recato dal papa per convincerlo a desistere dai suoi propositi di interferire nella politica del comune fiorentino, non poté far ritorno in cittą, perché condannato per due anni all'esilio sotto la falsa accusa di baratteria. Da allora visse in esilio, non avendo mai accettato l'invito dei Fiorentini a rientrare in cittą a patto di riconoscersi colpevole dei reati di cui era stato ingiustamente accusato. Fu ospite di Bartolomeo della Scala a Verona, dei marchesi Malaspina in Lunigiana, ancora a Verona di Cangrande della Scala ed infine di Guido Novello da Polenta a Ravenna, dove morģ nel settembre del 1321.

Di temperamento fiero e risoluto, Dante non mostrņ mai debolezze e tentennamenti. Convinto che la giustizia superiore di Dio dovesse compiersi anche nella vita terrestre, pose tutto il suo impegno di studioso e di scrittore al servizio della redenzione dell'umanitą, che gli sembrava ai suoi tempi aver toccato il fondo del male.

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Mesazh i vjetėr 08 Shtator 2003 11:53
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waw, dante

interesante Ami-. shume e bukur kjo teme, po s'ke thene ca gjera. maqe eshte shkrimtari im i prefeuar po i them une!

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Se ami una persona lasciala andare: se torna da te č tuo, se non torna non lo č mai stato

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Mesazh i vjetėr 08 Shtator 2003 12:00
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Me jep pak kohe moj mace e keqe, se aty eshte e bukura qe sekretet te nxirren pak nga pak pa bere buje e pa i shokuar njerezit. Megjithese te them te drejten Dantja me eshte dukur gjithmone shume i veshtire dhe kur e kam pasur ne provim i kam kaluar nje per nje rrathet e ferrit te Dantes. Per fat me ndihmoi me teper memorja se sa dedikimi im shpirteror qe ishte fare i ulet. Gjithsesi kam shpetuar prej Dantes dhe tani po hakmerrem duke u futur edhe juve ne universin e tij ne te cilin per fat te keq une kam shijuar vete,m "ferrin"

Komedia Hyjnore (Divina Commedia)

Per poter fare un qualsiasi discorso interpretativo sulla Divina Commedia,č indispensabile anzitutto chiarire alcune questioni.

La Prima č questa: Dante va, di volta in volta, distinto in tre ruoli specifici: quello dell'autore, quello del narratore e quello del personaggio. Come "autore" č colui che scrive l'opera; come "narratore" č colui che racconta all'autore gli eventi che costituIscono la trama dell'opera; come "personaggio" č il protagonista degli eventi stessi. Naturalmente la sequenza autore-narratore-Personaggio, valida per il lettore che si avvicina alla Divina Commedia e scopre nell'autore il narratore e nel narratore il personaggio, si ribalta totalmente per Dante,il quale, da "protagonista" di una "visione", si fa prima "narratore" della stessa" e, quindi, "autore" di un'opera che quella visione racconta. Un esempio: il personaggio Dante, a trentacinque anni di etą, si smarrģ in una selva oscura; il narratore Dante confessa l'episodio; l'autore versifica: "Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura". Come si vede chiaramente l' "autore" traduce in versi il racconto del "narratore" che, ovviamente,usa il verbo al passato ("mi ritrovai") per distinguersi dal "personaggio". A sua volta l' "autore", quasi a voler sottolineare il distacco da entrambi (cioč dal narratore e dal personaggio) ed a voler affermare il suo diritto ad esprimere giudizi sul significato morale ed anagogico della vicenda narrata, dice "di nostra vita" col chiaro intento di coinvolgere, fin dalle prime battute, nell'esperienza del personaggio l'intera umanitą.

Perņ se i ruoli del personaggio, del narratore e dell'autore vanno distinti, non si deve tuttavia pretendere che essi non si confondano o sovrappongano, trattandosi pur sempre della stessa persona, cioč di Dante. Per esempio,nella terzina successiva, autore e narratore si confondono ("Ahi quanto a dir qual era č cosa dura"), mentre subito dopo autore e personaggio si distinguono l'uno dall'altro alternandosi: "ma per trattar del ben (qui c'č l'autore) ch'io vi trovai (qui c'č il personaggio), dirņ de l'altre cose (autore) ch' i' v'ho scorte (personaggio). Io non so ben ridir (autore) com' i' v'entrai (personaggio)".

La seconda questione da chiarire č quella dei "sensi" da atribuire alla scrittura per interpretare compiutamente l'opera.

Come si sa,fin dai primi secoli del Medioevo, era invalso l'uso di interpretare i Sacri testi (Antico e Nuovo testamento) risalendo dal senso letterale a quello allegorico, a quello morale ed a quello anagogico. Verso la fine del Medioevo tale metodo interpretativo fu esteso anche alle opere letterarie e, in particolare,a quelle poetiche. Lo dice lo stesso Dante nel "Convivio", chiarendo anche il valore e le caratteristiche dei quattro sensi: quello "letterale" si ricava dalle parole pure e semplici usate dall'autore per narrare un episodio (Dante, perdutosi in una selva oscura, ai primi raggi del sole scopre un colle che potrebbe costituite per lui la strada della salvezza, ma č impedito nell'ascesa da tre fiere che lo risospingono in basso); quello "allegorico" bisogna intuirlo dal letterale (ad esempio, la selva oscura rappresenta il peccato, il Sole la Grazia Divina illuminante che indica la via della redenzione, il colle indica la via del riscatto dal peccato, le tre fiere - lonza, leone e lupa - rispettivamente i tre vizi capitali che ostacolano il cammino dell'uomo peccatore verso il bene, e cioč la lussuria, la superbia e l'avarizia); quello "morale" si ricava poi dal senso allegorico: nell'episodio riferito sarebbe che l'uomo caduto nel peccato mortale non puņ, con la sola forza della volontą, riscattarsi, anche se la Grazia Divina gli indica la strada, ma ha bisogno di ricorrere alla Ragione umana (Virgilio),la quale tuttavia, se vale a far superare l'ostacolo rappresentato dai vizi capitali, nemmeno potrebbe condurre alla salvezza eterna, cioč al Paradiso,senza la Fede (Beatrice).

Pił ardua č la definizione del senso "anagogico",per quanto riguarda l'interpretazione della Divina Commedia, perché lo stesso Dante, sempre nel "Convivio", sembra riservarlo alle sole Scritture. Infatti egli porta l'esempio del popolo d'Israele che, guidato da Mosč, si libera dalla schiavitł egiziana attraversando il Mar Rosso, e interpreta l'episodio narrato nella Bibbia come simbolico del popolo dei credenti che, guidato dal Cristo, si libera dalla schiavitł del paganesimo. C'č perņ da dire che nell' Epistola a Cangrande il Poeta riconosce che comunque il senso anagogico č possibile riscontrarlo in tutte le opere che trattano di cose riguardanti l'eternitą, il mondo dell' aldilą, e quindi anche nella "Commedia". Ma per poter estendere il senso "anagogico" alla interpretazione della Divina Commedia, bisogna far ricorso alla proposta dell'Auerbach. Questi, riferendosi al metodo dell'esegesi biblica medievale, afferma che i primi teologi cattolici consideravano i fatti della vita terrena narrati nel Vecchio Testamento come "figure" di una realtą pił solida ed eterna, quella rivelata nel Nuovo testamento. Con questo procedimento un avvenimento o un personaggio storico vengono proiettati verso l'eternitą, lą dove si realizza il disegno divino, e perciņ sono "figura" reale di una realtą ancor pił vera. Insomma, come afferma il Pasquazi, l'interpretazione figurale proposta dall' Auerbach "vede la realtą terrena e la realtą eterna come due momenti di cui il primo significa anche l'altro, mentre l'altro comprende e adempie il primo". Infatti l'Auerbach cosģ spiega il significato anagogico della Commedia: essa "č la storia dell'evoluzione e della salvezza d'un uomo singolo, di Dante, e come tale una figurazione della salvezza dell'umanitą". Anche Umberto Bosco concorda con la tesi dell' Auerbach quando afferma che la legge generale della Commedia consiste nell' "assunzione del personale a valore universale".

Tuttavia,nel leggere e nello studiare la Divina Commedia, non dobbiamo mai dimenticarci che essa č essenzialmente un'opera di altissima poesia. Tutto il discorso fatto prima ci aiuta a penetrare nel significato morale dell'opera,in un certo senso ad assecondare la volontą dello stesso Dante che, appunto, nella Commedia intendeva dare un contributo al riscatto dell'umanitą dal peccato. Ma, al di lą delle intenzioni, il poeta ha prevalso sul moralista. Come afferma giustamente il De Sanctis, "Dante č stato illogico; ha fatto altra cosa che non intendeva". Infatti la Commedia appare al critico Irpino "il Medio Evo realizzato, come arte, malgrado l'autore e malgrado i contemporanei". Questo giudizio basta da solo a spiegarci come sia possibile,in un poema che si propone di esaltare la beatitudine eterna e di indicare la strada del riscatto e della purificazione dal peccato, dalla carne, dalla storia, dalla vita terrena, trovarvi tanto peccato, tanta carne, tanta storia descritti con un linguaggio crudo e finanche "ripugnante" (come osservņ il Goethe). A tal proposito l'Auerbach cita un verso, apparentemente volgare, che compare in uno dei passi pił "solenni" del "Paradiso", e cioč: "e lascia pur grattar dov'č la rogna", ma il critico ha precedentemente precisato che "Dante non conosce limiti nella rappresentazione esatta e schietta del quotidiano, del grottesco e del repellente; cose che in sé non potevano venir considerate "sublimi" nel senso antico, lo diventano con lui per la prima volta". Proprio da ciņ l'Auerbach nota l'enorme distanza che intercorre tra Virgilio (classico) e Dante (moderno). E, rifacendosi ad un giudizio di Benvenuto da Imola, afferma che la Divina Commedia contiene ogni sorta di poesia ed ogni sorta di scienza, ed anche se l'autore l'ha definita "Commedia" per lo stile umile e la lingua popolare, essa tuttavia appartiene al genere di poesia "sublime e grandioso".

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La Divinia Commedia

Poema in terzine di endecasillabi, di cento canti, divisi in tre cantiche (Inferno, Purgatorio, Paradiso), scritto da Dante Alighieri. La prima idea di narrare un viaggio ultraterreno a celebrazione di Beatrice si puņ riconoscere in alcuni versi della canzone giovanile Donne ch’avete intelletto d’amore (1289 circa):

Diletti miei, or sofferite in pace
che vostra speme sia quanto me piace
lą ov’č alcun che perder lei s’attende,
e che dirą ne lo inferno: O mal nati,
io vidi la speranza de’ beati.

Il proposito appare pił maturo nella chiusa della Vita nuova, dove Dante dichiara, in seguito a una mirabile visione, di non voler dire di Beatrice finché non possa trattare di lei pił degnamente. Al poema perņ egli prese a lavorare soltanto fra il 1306 e il 1307, quando interruppe la composizione del Convivio, e gli risultņ chiaro che la sua personalitą avrebbe potuto esprimersi a pieno, meglio che in un trattato filosofico, in un’opera nella quale anche filosofia e scienza recassero l’impronta di una soggettiva e drammatica conquista.

L’Inferno fu dunque composto fra il 1307 e il 1310, il Purgatorio fra il 1310 e il 1313, e l’una e l’altra cantica vennero pubblicate dopo la morte di Arrigo VII, quando gią il poeta lavorava al Paradiso, che nella sua integritą venne alla luce postumo. Il titolo "Commedia" fu dato avendo riguardo alla distinzione medievale fra commedia e tragedia, ossia al fatto che la materia del poema, sul principio dolorosa, ha una conclusione lieta, ma in considerazione pure dello stile, giacché - secondo la teoria esposta nel De vulgari eloquentia - comico č lo stile che puņ accogliere in sé anche elementi umili e realistici. L’epiteto di "divina" venne proposto dal Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante, ed ebbe fortuna da quando apparve la prima volta sul frontespizio di un’edizione veneziana del 1555.

Dai racconti medievali di viaggi nell’oltretomba e dalle descrizioni popolaresche dell’aldilą il poema dantesco si differenzia, oltre che per l’altissima poesia, per la soliditą strutturale. Il viaggio che il poeta immagina cominciato la sera dell’8 aprile 1300 e durato una settimana - il tempo della passione e resurrezione di Cristo nell’anno del grande giubileo indetto da Bonifacio VIII - si svolge in un mondo che non ha soltanto contorni ben definiti, ma rispecchia nel suo ordine un’organica concezione dell’universo. L’Inferno č immaginato come un immenso cono capovolto che ha l’ingresso sotto Gerusalemme e il vertice al centro della Terra, dove sta confitto Lucifero: esso ebbe origine quando il grande ribelle precipitņ dal cielo e la Terra, ritraendosi per l’orrore, formņ i continenti dell’emisfero boreale. Nell’Antinferno, al di qua dell’Acheronte, stanno gli ignavi e gli angeli che nel giorno della ribellione di Lucifero si tennero neutrali. Il primo cerchio č il Limbo, dove con i fanciulli innocenti non salvati dal battesimo si trovano i magnanimi che, vissuti o innanzi o fuori dal cristianesimo, praticarono le sole virtł cardinali. I dannati sono poi distribuiti in modo che coloro che peccarono d’incontinenza - lussuriosi, golosi, avari e prodighi, superbi e iracondi - occupino i cerchi dal secondo al quinto; nel sesto, dove comincia la cittą di Dite, stanno coloro che volontariamente mancarono di fede, vale a dire gli eretici; nel settimo quelli che peccarono per bestialitą, distinti nei tre gironi dei violenti contro il prossimo, violenti contro se stessi e le proprie cose, violenti contro Dio, natura e arte; nell’ottavo o Malebolge, distinto in dieci cerchi minori, coloro che commisero frode in danno di chi non aveva speciali motivi di fidarsi (seduttori, adulatori, simoniaci, indovini, barattieri, ipocriti, ladri, consiglieri di frode, seminatori di scandali e scismi, falsari); nel nono coloro che esercitarono la frode verso chi aveva ragione di fidarsi, ed essi (tutti confitti nel ghiaccio di Cocito) si trovano divisi in quattro zone, Caina, Antenora, Tolomea, Giudecca, secondo che tradirono i congiunti, la parte politica, gli ospiti, imperatori o papi.

Pił semplice č la struttura del Purgatorio, le cui sette cornici corrispondono ai sette peccati capitali: superbia, invidia, ira - che nascono da eccessivo amore di sé -; ignavia — che č difetto d’amore —; avarizia, gola, lussuria — che sono conseguenza di un amore delle cose non controllato da ragione. Tenendo conto dell’Antipurgatorio, nel quale le anime prima di essere sottoposte alle varie pene espiano il tardivo pentimento, e del Paradiso terrestre che si apre in vetta al monte, anche nella divisione del Purgatorio si ripete il mistico numero nove, il quale torna pure nel Paradiso.

Al di sopra, infatti, dell’atmosfera terrestre e della zona di fuoco che la chiude, si volgono concentrici come sfere diafane rotanti intorno alla Terra i nove cieli del sistema tolemaico (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, Stelle Fisse, Primo Mobile), al di lą dei quali si apre infinito e immateriale l’Empireo.

Nel suo viaggio ultraterreno Dante ha come guida Virgilio sino alla vetta del Purgatorio, e di qui all’Empireo Beatrice: quando essa sale a occupare il seggio che i suoi meriti le hanno sortito nella Rosa dei beati, affinché il poeta possa portare a compimento la visione beatifica di Dio gli č confortatore e consigliere san Bernardo. Virgilio, sulla cui personalitą di saggio oltre che di poeta il medioevo aveva intrecciato curiose leggende, adempie la funzione di maestro fin dove la ragione umana puņ penetrare i misteri di Dio; Beatrice, che gią in Terra era trascorsa come un’apparizione angelica, č l’incarnazione di una bellezza pura e di una sapienza luminosa alla quale il poeta tutto si affida nell’ultima sua ascesa. L’uno e l’altra sono figure essenziali al mistico viaggio di Dante, creature ricche di vita, nelle quali si rispecchia sublimata non solo la sete di sapere del poeta ma il suo profondo bisogno di intime corrispondenze affettive, e per esse si comprende come il soggettivo e l’oggettivo, l’impulso autobiografico e il significato universale si fondano e si compenetrino nel grande poema. Del resto la concezione stessa del viaggio nell’oltretomba, necessaria espiazione di colpe personali ma pure voluto perché il poeta rammenti all’umanitą sviata quali sono i suoi veri fini, nacque dall’esigenza di dare un significato oggettivo a un’esperienza personale. Per questo giudicando e ammonendo, Dante assunse funzione pił che di poeta: volle essere maestro di veritą morali, religiose, politiche, e nell’allegoria generale del poema ha un significato altissimo la profezia dell’avvento di colui che dovrą riportare la giustizia in Terra, adombrato vagamente nella figura del Veltro del primo canto dell’Inferno, pił chiaramente definito nel "cinquecento diece e cinque" del trentatreesimo canto del Purgatorio: un personaggio nel quale, e per il luogo in cui esso si colloca — al termine della mistica processione cui Dante assiste nel Paradiso terrestre — e per il tempo in cui gli ultimi canti del Purgatorio vennero composti, č ben motivato riconoscere Arrigo VII, restauratore dell’Impero.

Ma la poesia stessa della Divina Commedia, nel suo vario e pur coerente manifestarsi, mostra con quale potenza di fantasia Dante abbia dato consistenza oggettiva a ciņ che nasceva dalla sua partecipazione umana alla vita. Ove si eccettuino pochi personaggi che, attinti dal mito o dalla storia antica, grandeggiano per il significato morale che a essi attribuģ il poeta — i mostri infernali, Giasone, Capaneo, Ulisse, Catone, Stazio — nel poema rivivono uomini e vicende della vita contemporanea tanto che persino nel Paradiso i santi dei quali č rievocata la vita con maggiore ricchezza di particolari sono quelli pił vicini nel tempo e la cui lezione restava pił attuale: san Francesco, san Domenico, san Pier Damiani. Tuttavia la poesia dantesca non ristagna mai nella cronaca, e sia che il poeta condanni chi si macchiņ d’infamia o esalti chi ebbe animo grande, sia che compianga chi ingiustamente sofferse o rievochi con cuore commosso chi ebbe amico nella vita terrena, egli crea figure che hanno il palpito eterno della poesia. Č vero piuttosto che nelle tre cantiche, le quali corrispondono a tre momenti della vita spirituale del poeta, si danno toni fondamentalmente diversi: nell’Inferno prevale la drammaticitą appassionata, nel Purgatorio pił si dispiega una malinconica elegia, nel Paradiso un lirismo commosso e contemplativo. Non mai perņ si attenua la partecipazione alla vita terrena, ché anzi nel Paradiso l’invettiva contro la Chiesa degenere e contro ogni specie di corruzione morale suona pił aspra che altrove. Nella terza cantica si fa invece pił ardua la materia dottrinale, che č pur presente in tutto il poema, e al lettore moderno pił grave viene a proporsi il quesito del rapporto tra scienza e poesia, perché se sovente Dante dalla difficile materia scientifica, tanto a fondo posseduta da divenire oggetto di serena contemplazione, riesce a estrarre poesia di alta ispirazione, non di rado tuttavia mette in versi qui, pił che nelle prime due cantiche, concetti filosofici e tesi scientifiche del tutto vuoti di spirito poetico. Ma a distinguere con chiarezza nella Divina Commedia la poesia da ciņ che poesia non č, e pure ha un valore positivo, soltanto la critica moderna č arrivata attraverso lunghe e pazienti discussioni. Nel poema i contemporanei, pur avvertendone l’alto pregio artistico, ammirarono innanzi tutto la vasta dottrina e apprezzarono il nobile insegnamento morale, e ben presto si ebbero commenti in latino e in volgare. Il pił antico di essi, limitato al solo Inferno, si deve al figlio del poeta, Iacopo; poco dopo la morte di Dante, nel 1324, espose in latino l’Inferno Graziolo Bambaglioli, notaio bolognese, e non molti anni pił tardi Iacopo della Lana commentņ in volgare le tre cantiche. Altri commenti seguirono sino alla fine del secolo: il cosģ detto "Ottimo Commento" di un anonimo fiorentino, quello pregevolissimo del Boccaccio rimasto interrotto al diciassettesimo canto dell’Inferno, quello latino di Benvenuto Rambaldi da Imola, il pił ricco di notizie storiche, e quello volgare di Francesco Buti, notevole fra tutti per l’interpretazione della lingua. Nel secolo dell’Umanesimo gravņ in parte sul poema il generico pregiudizio contro la letteratura volgare non tanto perņ che, specialmente in ambiente fiorentino, non se ne riconoscesse l’eccezionale grandezza. Nel maturo Rinascimento la Divina Commedia fu ancora ammirata, benché se ne criticasse la struttura medievale e si giudicassero severamente gli idiotismi linguistici e certa asprezza di toni. Fu pertanto merito dei letterati dell’Accademia fiorentina, e in particolare del Gelli e del Varchi, avere rivendicato i pregi del poema sebbene essi indugiassero pił sulla materia dottrinale che sull’arte, sulle peculiaritą linguistiche che sulla poesia. Pił acuto lettore, competentissimo nell’intendere rettamente la lingua e ben ferrato nelle varie questioni storiche, fu Vincenzio Borghini, il cui merito risulta tanto maggiore a chi consideri che egli giudicava intelligentemente la poesia dantesca in un’epoca nella quale l’aristotelismo estetico opponeva a essa gravi pregiudizi. Scarso fu invece l’interesse per la Divina Commedia nei letterati del Seicento, ove si eccettuino alcuni fiorentini, quali Carlo Danti, Benedetto Buonmattei, Lorenzo Magalotti; ma ancora nel secolo successivo il gusto classicistico allontanņ dalla poesia dantesca, e si ebbe anzi allora l’episodio pił clamoroso dell’antidantismo: la pubblicazione delle Lettere virgiliane di Saverio Bettinelli (1757), un libello senza dubbio inclemente ma nel quale č pur da notare il consenso sincero per alcuni grandi episodi patetici e drammatici dell’Inferno. Fa eccezione nel Settecento Giambattista Vico, il quale solo, prima dell’Alfieri, seppe comprendere la grandezza di Dante, che a lui appariva come un geniale poeta primitivo: l’Omero dell’italica barbarie. Da Alfieri, ossia da colui che fu il primo vero poeta romantico italiano e insieme il profeta del Risorgimento, ha origine la valutazione tutta positiva della Divina Commedia, che la critica successiva ha sempre meglio ragionato e discusso grazie a interpreti geniali e appassionati quali Ugo Foscolo e Francesco De Sanctis, e a molti altri tra i quali, per dire solo di coloro che hanno segnato un’orma pił profonda negli studi danteschi, sono almeno da ricordare Benedetto Croce, Ernesto Giacomo Parodi, Michele Barbi nonché commentatori come G. Scartazzini, N. Sapegno, A. Momigliano e filologi come G. Contini. La fortuna del poeta, e in particolare della Divina Commedia, fuori d’Italia ebbe inizio nell’etą romantica, quando il ritorno nostalgico al medioevo e il culto del primitivo disposero gli animi a veramente comprendere e amare la poesia dantesca. I primi grandi ammiratori di Dante furono in Germania Herder, A. W. Schlegel, Hegel, Schelling, e in Inghilterra Carlyle.

In Germania dal culto per il poeta ebbero impulso seri studi filologici e storici sulla sua vita e le sue opere: a Dresda, nel 1865, venne fondata, prima ancora che in Italia, una societą dantesca, e C. Witte diede, nel 1862, un’edizione critica della Divina Commedia. Altri insigni studiosi di Dante furono poi A. Gaspary, lo svizzero-tedesco G. Andrea Scartazzini, il Bassermann, K. Vossler, H. Gmelin, E. Auerbach, L. Spitzer.

In Inghilterra si devono menzionare gli importanti contributi filologici di E. Moore, editore di tutte le opere dantesche, di G. Warren lord Vernon, di P. Toynbee e gli scritti del poeta Eliot. In Francia dopo gli studi dell’Ozanam e di P. Colomb De Batines, autore di una fondamentale bibliografia dantesca, vennero quelli dell’Hauvette, del Nolhac, dell’Hazard, e quelli anche pił rilevanti del Gilson, del Pézard, del Renaudet. Anche negli Stati Uniti d’America gli studi danteschi furono e sono tuttora coltivati con passione e competenza: a Cambridge (Massachusetts) venne fondata nel 1881 una societą dantesca; ricerche storiche e filologiche si ebbero poi per merito di non pochi studiosi, tra cui vanno menzionati il Wilkins e il Singleton.

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Poichč Dante quando fu condannato all'esilio non si riconosceva colpevole, nel 1302 gli fu rinnovata la condanna: cioč la confisca di tutti i suoi beni e la condanna a morte sul rogo!
durante il suo esilio conobbe, in uno dei suoi tanti viaggi, Boccaccio. quando discese in italia l'imperatore arrgigo VII di Lussemburgo Dante pose in lui la sua speranza di una riunificazione di Firenze, perņ arrigo VII morģ, e Dante si guadagnņ l'odio di molte persone, tra cui i signori locali che vedevano solo i loro interessi. perciņ la sua condanna venne aggravata e poteva salvarsi solo riconoscendo pubblicamente le proprie colpe. Egli rifiutņ e perciņ fu condannato a morte insieme alla sua famiglia. Dante morģ tornando da un ambasceria a venezia e i suoi resti sono ora nella chiesa di S. Francesco anche se i fiorentini richiedono ancora che egli sia sepolto a Firenze. Poichč perņ i fiorentini non compresero mai chi fu Dante, allora non potranno mai avere le sue spoglia!

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appapapapapa, te gjithe librin paske kopiuar lol? po mire, beja pak si ne forme peralle njerzve se nuk kane nge te lexojne Danten qe meson ti ne universitet. mua me pelqen shume dhe pse dhe une kam bere vetem ferrin per tani. atehere, flasim per dashurine: Beatrice! si eshte e rafiguruar per poetin tone te dashur?

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Se ami una persona lasciala andare: se torna da te č tuo, se non torna non lo č mai stato

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Mesazhe: 614

prit se dashkan nje ore keto shkrimet e tua per tu lexuar. do ti kem parasysh kur te me duhen per universitet!

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Mesazhe: 614

la vita nuova( vepra qe tregon dashurine per beatricen)

la vita nuova č in un certo senso la bigrafia della giovinezza di dante. essa racconta l'amore di dante per beatrice. Dante incontra Beatrice a 9 anni e la reincontra a 18 anni ed ottiene il suo saluto. un giorno, in chiesa, mentre dante osserva beatrice, i presenti credono che egli osservi una donna che si trova tra il poeta e beatrice. egli alimenta questi malintesi per proteggere beatrice. ( viene chiamata la donna-schermo). un giorno perņ questa donna parte e dante mette un altra donna schermo. si difonde perņ la fama che tra il poeta e questa donna ci sia una relazione disonesta e da questo a dante viene negato il saluto della sua amata. dopo un periodo di sofferenza, dante comincia una nuova poetica di lode per beatrice: non si rivolge pił all'amata, nč racconta la sua condizione, ma decide di descrivere le bellezze della sua amata. beatrice muore nel 1290. da allora compare la donna gentile, che consola dante e lo coinvolge in una passione. in realtą si pensa che la donna gentile sia una metafora per rappresentare la filosofia, l'unica in grado di consolare il poeta in questo momento. l'opera viene conclusa qui perchč dante decide di scrivere un opera ancora pił grande, che rappresenti meglio l'amata che ora č in cielo ed č pił degna di lode.

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Mesazh i vjetėr 08 Shtator 2003 12:47
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Mesazhe: 940

Inferno(canto 1)

1. 1 Nel mezzo del cammin di nostra vita
1. 2 mi ritrovai per una selva oscura
1. 3 ché la diritta via era smarrita.

1. 4 Ahi quanto a dir qual era č cosa dura
1. 5 esta selva selvaggia e aspra e forte
1. 6 che nel pensier rinova la paura!

1. 7 Tant'č amara che poco č pił morte;
1. 8 ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
1. 9 dirņ de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.

1. 10 Io non so ben ridir com'i' v'intrai,
1. 11 tant'era pien di sonno a quel punto
1. 12 che la verace via abbandonai.

1. 13 Ma poi ch'i' fui al pič d'un colle giunto,
1. 14 lą dove terminava quella valle
1. 15 che m'avea di paura il cor compunto,

1. 16 guardai in alto, e vidi le sue spalle
1. 17 vestite gią de' raggi del pianeta
1. 18 che mena dritto altrui per ogne calle.

1. 19 Allor fu la paura un poco queta
1. 20 che nel lago del cor m'era durata
1. 21 la notte ch'i' passai con tanta pieta.

1. 22 E come quei che con lena affannata
1. 23 uscito fuor del pelago a la riva
1. 24 si volge a l'acqua perigliosa e guata,

1. 25 cosģ l'animo mio, ch'ancor fuggiva,
1. 26 si volse a retro a rimirar lo passo
1. 27 che non lasciņ gią mai persona viva.

1. 28 Poi ch'ei posato un poco il corpo lasso,
1. 29 ripresi via per la piaggia diserta,
1. 30 sģ che 'l pič fermo sempre era 'l pił basso

1. 31 Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,
1. 32 una lonza leggiera e presta molto,
1. 33 che di pel macolato era coverta;

1. 34 e non mi si partia dinanzi al volto,
1. 35 anzi 'mpediva tanto il mio cammino,
1. 36 ch'i' fui per ritornar pił volte vņlto.

1. 37 Temp'era dal principio del mattino,
1. 38 e 'l sol montava 'n sł con quelle stelle
1. 39 ch'eran con lui quando l'amor divino

1. 40 mosse di prima quelle cose belle;
1. 41 sģ ch'a bene sperar m'era cagione
1. 42 di quella fiera a la gaetta pelle
1. 43 l'ora del tempo e la dolce stagione;
1. 44 ma non sģ che paura non mi desse
1. 45 la vista che m'apparve d'un leone.

1. 46 Questi parea che contra me venisse
1. 47 con la test'alta e con rabbiosa fame,
1. 48 sģ che parea che l'aere ne tremesse.
1 49 Ed una lupa, che di tutte brame
1. 50 sembiava carca ne la sua magrezza,
1. 51 e molte genti fé gią viver grame,

1. 52 questa mi porse tanto di gravezza
1. 53 con la paura ch'uscia di sua vista,
1. 54 ch'io perdei la speranza de l'altezza.

1. 55 E qual č quei che volontieri acquista,
1. 56 e giugne 'l tempo che perder lo face,
1. 57 che 'n tutti suoi pensier piange e s'attrista;

1. 58 tal mi fece la bestia sanza pace,
1. 59 che, venendomi 'ncontro, a poco a poco
1. 60 mi ripigneva lą dove 'l sol tace.

1. 61 Mentre ch'i' rovinava in basso loco,
1. 62 dinanzi a li occhi mi si fu offerto
1. 63 chi per lungo silenzio parea fioco.

1. 64 Quando vidi costui nel gran diserto,
1. 65 «*Miserere* di me», gridai a lui,
1. 66 «qual che tu sii, od ombra od omo certo!».

1. 67 Rispuosemi: «Non omo, omo gią fui,
1. 68 e li parenti miei furon lombardi,
1. 69 mantoani per patria ambedui.

1. 70 Nacqui *sub Iulio*, ancor che fosse tardi,
1. 71 e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto
1. 72 nel tempo de li dči falsi e bugiardi.

1. 73 Poeta fui, e cantai di quel giusto
1. 74 figliuol d'Anchise che venne di Troia,
1. 75 poi che 'l superbo Ilion fu combusto.

1. 76 Ma tu perché ritorni a tanta noia?
1. 77 perché non sali il dilettoso monte
1. 78 ch'č principio e cagion di tutta gioia?».

1. 79 «Or se' tu quel Virgilio e quella fonte
1. 80 che spandi di parlar sģ largo fiume?»,
1. 81 rispuos'io lui con vergognosa fronte.

1. 82 «O de li altri poeti onore e lume
1. 83 vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore
1. 84 che m'ha fatto cercar lo tuo volume.

1. 85 Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore;
1. 86 tu se' solo colui da cu' io tolsi
1. 87 lo bello stilo che m'ha fatto onore.

1. 88 Vedi la bestia per cu' io mi volsi:
1. 89 aiutami da lei, famoso saggio,
1. 90 ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi».

1. 91 «A te convien tenere altro viaggio»,
1. 92 rispuose, poi che lagrimar mi vide,
1. 93 «se vuo' campar d'esto loco selvaggio:

1. 94 ché questa bestia, per la qual tu gride,
1. 95 non lascia altrui passar per la sua via,
1. 96 ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide;

1. 97 e ha natura sģ malvagia e ria,
1. 98 che mai non empie la bramosa voglia,
1. 99 e dopo 'l pasto ha pił fame che pria.

1.100 Molti son li animali a cui s'ammoglia,
1.101 e pił saranno ancora, infin che 'l veltro
1.102 verrą, che la farą morir con doglia.

1.103 Questi non ciberą terra né peltro,
1.104 ma sapienza, amore e virtute,
1.105 e sua nazion sarą tra feltro e feltro.

1.106 Di quella umile Italia fia salute
1.107 per cui morģ la vergine Cammilla,
1.108 Eurialo e Turno e Niso di ferute.

1.109 Questi la caccerą per ogne villa,
1.110 fin che l'avrą rimessa ne lo 'nferno,
1.111 lą onde 'nvidia prima dipartilla.

1.112 Ond'io per lo tuo me' penso e discerno
1.113 che tu mi segui, e io sarņ tua guida,
1.114 e trarrotti di qui per loco etterno;

1.115 ove udirai le disperate strida,
1.116 vedrai li antichi spiriti dolenti,
1.117 ch'a la seconda morte ciascun grida;

1.118 e vederai color che son contenti
1.119 nel foco, perché speran di venire
1.120 quando che sia a le beate genti.

1.121 A le quai poi se tu vorrai salire,
1.122 anima fia a ciņ pił di me degna:
1.123 con lei ti lascerņ nel mio partire;

1.124 ché quello imperador che lą sł regna,
1.125 perch'i' fu' ribellante a la sua legge,
1.126 non vuol che 'n sua cittą per me si vegna.

1.127 In tutte parti impera e quivi regge;
1.128 quivi č la sua cittą e l'alto seggio:
1.129 oh felice colui cu' ivi elegge!».

1.130 E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
1.131 per quello Dio che tu non conoscesti,
1.132 acciņ ch'io fugga questo male e peggio,

1.133 che tu mi meni lą dov'or dicesti,
1.134 sģ ch'io veggia la porta di san Pietro
1.135 e color cui tu fai cotanto mesti».
1.136 Allor si mosse, e io li tenni dietro.


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Voglio, avrņ — se non qui, in altro luogo che ancora non so. Niente ho perduto. Tutto sarņ. (Fernando Pessoa)

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Mesazh i vjetėr 01 Tetor 2003 08:54
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Mesazhe: 940

Inferno(canto 2)

2. 1 Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno
2. 2 toglieva li animai che sono in terra
2. 3 da le fatiche loro; e io sol uno

2. 4 m'apparecchiava a sostener la guerra
2. 5 sģ del cammino e sģ de la pietate,
2. 6 che ritrarrą la mente che non erra.

2. 7 O muse, o alto ingegno, or m'aiutate;
2. 8 o mente che scrivesti ciņ ch'io vidi,
2. 9 qui si parrą la tua nobilitate.

2. 10 Io cominciai: «Poeta che mi guidi,
2. 11 guarda la mia virtł s'ell'č possente,
2. 12 prima ch'a l'alto passo tu mi fidi.

2. 13 Tu dici che di Silvio il parente,
2. 14 corruttibile ancora, ad immortale
2. 15 secolo andņ, e fu sensibilmente.

2. 16 Perņ, se l'avversario d'ogne male
2. 17 cortese i fu, pensando l'alto effetto
2. 18 ch'uscir dovea di lui e 'l chi e 'l quale,

2. 19 non pare indegno ad omo d'intelletto;
2. 20 ch'e' fu de l'alma Roma e di suo impero
2. 21 ne l'empireo ciel per padre eletto:

2. 22 la quale e 'l quale, a voler dir lo vero,
2. 23 fu stabilita per lo loco santo
2. 24 u' siede il successor del maggior Piero.

2. 25 Per quest'andata onde li dai tu vanto,
2. 26 intese cose che furon cagione
2. 27 di sua vittoria e del papale ammanto.

2. 28 Andovvi poi lo Vas d'elezione,
2. 29 per recarne conforto a quella fede
2. 30 ch'č principio a la via di salvazione.

2. 31 Ma io perché venirvi? o chi 'l concede?
2. 32 Io non Enea, io non Paulo sono:
2. 33 me degno a ciņ né io né altri 'l crede.

2. 34 Per che, se del venire io m'abbandono,
2. 35 temo che la venuta non sia folle.
2. 36 Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono».

2. 37 E qual č quei che disvuol ciņ che volle
2. 38 e per novi pensier cangia proposta,
2. 39 sģ che dal cominciar tutto si tolle,

2. 40 tal mi fec'io 'n quella oscura costa,
2. 41 perché, pensando, consumai la 'mpresa
2. 42 che fu nel cominciar cotanto tosta.

2. 43 «S'i' ho ben la parola tua intesa»,
2. 44 rispuose del magnanimo quell'ombra;
2. 45 «l'anima tua č da viltade offesa;

2. 46 la qual molte fiate l'omo ingombra
2. 47 sģ che d'onrata impresa lo rivolve,
2. 48 come falso veder bestia quand'ombra.

2. 49 Da questa tema acciņ che tu ti solve,
2. 50 dirotti perch'io venni e quel ch'io 'ntesi
2. 51 nel primo punto che di te mi dolve.

2. 52 Io era tra color che son sospesi,
2. 53 e donna mi chiamņ beata e bella,
2. 54 tal che di comandare io la richiesi.

2. 55 Lucevan li occhi suoi pił che la stella;
2. 56 e cominciommi a dir soave e piana,
2. 57 con angelica voce, in sua favella:

2. 58 "O anima cortese mantoana,
2. 59 di cui la fama ancor nel mondo dura,
2. 60 e durerą quanto 'l mondo lontana,

2. 61 l'amico mio, e non de la ventura,
2. 62 ne la diserta piaggia č impedito
2. 63 sģ nel cammin, che volt'č per paura;

2. 64 e temo che non sia gią sģ smarrito,
2. 65 ch'io mi sia tardi al soccorso levata,
2. 66 per quel ch'i' ho di lui nel cielo udito.

2. 67 Or movi, e con la tua parola ornata
2. 68 e con ciņ c'ha mestieri al suo campare
2. 69 l'aiuta, sģ ch'i' ne sia consolata.

2. 70 I' son Beatrice che ti faccio andare;
2. 71 vegno del loco ove tornar disio;
2. 72 amor mi mosse, che mi fa parlare.

2. 73 Quando sarņ dinanzi al segnor mio,
2. 74 di te mi loderņ sovente a lui".
2. 75 Tacette allora, e poi comincia' io:

2. 76 "O donna di virtł, sola per cui
2. 77 l'umana spezie eccede ogne contento
2. 78 di quel ciel c'ha minor li cerchi sui,

2. 79 tanto m'aggrada il tuo comandamento,
2. 80 che l'ubidir, se gią fosse, m'č tardi;
2. 81 pił non t'č uo' ch'aprirmi il tuo talento.

2. 82 Ma dimmi la cagion che non ti guardi
2. 83 de lo scender qua giuso in questo centro
2. 84 de l'ampio loco ove tornar tu ardi".

2. 85 "Da che tu vuo' saver cotanto a dentro,
2. 86 dirotti brievemente", mi rispuose,
2. 87 "perch'io non temo di venir qua entro.

2. 88 Temer si dee di sole quelle cose
2. 89 c'hanno potenza di fare altrui male;
2. 90 de l'altre no, ché non son paurose.

2. 91 I' son fatta da Dio, sua mercé, tale,
2. 92 che la vostra miseria non mi tange,
2. 93 né fiamma d'esto incendio non m'assale.

2. 94 Donna č gentil nel ciel che si compiange
2. 95 di questo 'mpedimento ov'io ti mando,
2. 96 sģ che duro giudicio lą sł frange.

2. 97 Questa chiese Lucia in suo dimando
2. 98 e disse: - Or ha bisogno il tuo fedele
2. 99 di te, e io a te lo raccomando -.

2.100 Lucia, nimica di ciascun crudele,
2.101 si mosse, e venne al loco dov'i' era,
2.102 che mi sedea con l'antica Rachele.
2.103 Disse: - Beatrice, loda di Dio vera,
2.104 ché non soccorri quei che t'amņ tanto,
2.105 ch'uscģ per te de la volgare schiera?

2.106 non odi tu la pieta del suo pianto?
2.107 non vedi tu la morte che 'l combatte
2.108 su la fiumana ove 'l mar non ha vanto? -

2.109 Al mondo non fur mai persone ratte
2.110 a far lor pro o a fuggir lor danno,
2.111 com'io, dopo cotai parole fatte,

2.112 venni qua gił del mio beato scanno,
2.113 fidandomi del tuo parlare onesto,
2.114 ch'onora te e quei ch'udito l'hanno".

2.115 Poscia che m'ebbe ragionato questo,
2.116 li occhi lucenti lagrimando volse;
2.117 per che mi fece del venir pił presto;

2.118 e venni a te cosģ com'ella volse;
2.119 d'inanzi a quella fiera ti levai
2.120 che del bel monte il corto andar ti tolse.

2.121 Dunque: che č? perché, perché restai?
2.122 perché tanta viltą nel core allette?
2.123 perché ardire e franchezza non hai?

2.124 poscia che tai tre donne benedette
2.125 curan di te ne la corte del cielo,
2.126 e 'l mio parlar tanto ben ti promette?».

2.127 Quali fioretti dal notturno gelo
2.128 chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca
2.129 si drizzan tutti aperti in loro stelo,

2.130 tal mi fec'io di mia virtude stanca,
2.131 e tanto buono ardire al cor mi corse,
2.132 ch'i' cominciai come persona franca:

2.133 «Oh pietosa colei che mi soccorse!
2.134 e te cortese ch'ubidisti tosto
2.135 a le vere parole che ti porse!

2.136 Tu m'hai con disiderio il cor disposto
2.137 sģ al venir con le parole tue,
2.138 ch'i' son tornato nel primo proposto.

2.139 Or va, ch'un sol volere č d'ambedue:
2.140 tu duca, tu segnore, e tu maestro».
2.141 Cosģ li dissi; e poi che mosso fue,
2.142 intrai per lo cammino alto e silvestro.


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