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Regjistruar: 18/12/2002
Vendbanimi: Venezia
Mesazhe: 569

Giacomo Leopardi

In una lettera del marzo 1829 a Pietro Colletta, Giacomo Leopardi confida il proposito di scrivere una autobiografia che descrivesse perņ solo “poche avventure estrinseche, e queste... delle pił ordinarie” e si applicasse invece a rivelare minutamente “le vicende interne di un animo nato nobile e tenero, dal tempo delle sue prime ricordanze fino alla morte”. Questa autobiografia -di cui scrisse solo una breve introduzione-, sarebbe dovuta essere, insomma, la “Storia di un’anima”. Quindi il Leopardi stesso intuģ per primo la scarsa rilevanza che ebbero su di lui i fatti esterni della vita familiare e sociale, anche se indubbiamente questi non poterono non condizionare in qualche modo, almeno negli anni della adolescenza e della prima giovinezza, la sua formazione intellettuale e morale. La veritą, comunque, č che il Leopardi visse nella solitudine della propria coscienza straordinarie avventure del pensiero e del sentimento e che per lui solo queste assu_mono il rilievo di dati biografici.

E' chiaro, quindi, che la pił autentica biografia del Leopardi vada ricercata non sui dati storici della sua esistenza, ma su quelli psicologici; non negli avvenimenti esterni, ma nelle sensazioni intime, nei palpiti segreti. A tal fine molto varrebbero le note sparse dello Zibaldone, soprattutto quelle raccolte, negli indici fatti dallo stesso Poeta, sotto il titolo di “Memorie della mia vita”. Ma pił ancora sarebbe utile riconoscere come fonte per una sua biografia tutta intera la sua produzione artistica.

Non ci sembra perņ questo il luogo per attingere a tali fonti e riteniamo opportuno rimandare il discorso sulla “storia dell'anima leopardiana” al momento in cui ci occuperemo delle opere del grande recanatese. In questa sede ci limiteremo a dare i dati esterni della sua vita.

Giacomo Leopardi nacque a Recanati il 29 giugno 1798 dal conte Monaldo e dalla marchesa Adelaide Antici. Il padre, conservatore e sostenitore del potere temporale dei papi, fu uomo di una certa cultura e possedeva una ricchissima biblioteca, ancora oggi oggetto di grande ammirazione. La madre, fredda e autoritaria, dedicņ tutta se stessa all’amministrazione del patrimonio familiare, abbastanza dissestato dalle errate speculazioni compiute dal marito, e poco si curņ dell'educazione dei figli (Giacomo, Carlo, Paolina, ecc.), ai quali fece mancare del tutto il calore dell’affetto materno.

Ben presto Giacomo si rivelņ un “bambino prodigio”, tanto che a poco pił di dieci anni avvertģ di poter fare a meno dei maestri e di poter continuare da solo i suoi studi nella biblioteca paterna. A soli dodici anni era gią in grado di scrivere correntemente in latino e dal latino tradusse i primi due libri delle Odi di Orazio. Compose pure due tragedie: “La virtł indiana” e “Pompeo in Egitto”. A quindici anni iniziņ una dotta “Storia dell'astronomia” e compose un “Saggio sopra gli errori popolari degli antichi”. In questi anni di “studio matto e disperatissimo” non solo scrisse molto su vari argomenti, ma riuscģ pure a perfezionare la sua conoscenza delle lingue classiche e ad apprendere la lingua ebraica ed alcune lingue moderne. Questo pressoché costante appartarsi nella biblioteca paterna gli alienņ il mondo esterno, che egli avvertģ poi quasi sempre come ostile e inadatto a comprendere la sua persona; ma gli minņ pure gravemente la salute fisica che gli fu causa di non poche sofferenze.

Nel 1817 provņ la prima delusione amorosa, essendosi invaghito, senza speranza, della cugina Geltrude Cassi Lazzeri, ospite in casa Leopardi insieme col marito ed una figlioletta. Altre delusioni del genere seguirono a questa (pare fosse innamorato di Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa, forse la Silvia del canto “A Silvia”, e di Maria Belardinelli, forse la Nerina delle “Ricordanze”), anche se, come osservņ il fratello Carlo, gli amori di Silvia e di Nerina furono pił immaginati come motivi di tristezza che realmente sentiti. In effetti Giacomo non ebbe mai interessi profondi per una donna in particolare ed egli stesso ebbe a dire: «In ordine alle donne...ho gią perduto due virtł teologali, la fede e la speranza. Resta l'amore, cioč la terza virtł della quale peranco non mi posso spogliare, con tutto che non creda né speri pił niente».

In questi anni avvertģ maggiormente gli angusti limiti del suo “borgo selvaggio” e, dopo aver anche meditato il suicidio, tentņ la fuga da casa. Il progetto fu perņ sventato dal padre e solo tre anni dopo, nel 1822, egli ottenne il permesso di recarsi a Roma presso lo zio materno Carlo Antici. La permanenza a Roma fu oltremodo deludente perché la cittą eterna non lo attirņ con le sue magnificenze architettoniche e monumentali e la vita intellettuale gli apparve spenta d’ogni fervore. Gli furono di conforto l’amicizia col cardinale Angelo Mai (per il quale due anni prima aveva scritto una canzone) e le conversazioni tenute con alcuni dotti stranieri, ma solo sei mesi dopo decise di ritornare a Recanati, ove restņ fino al luglio del 1825, quando ebbe l'invito di recarsi a Milano per curare l'edizione delle opere di Cicerone per conto dell’editore Antonio Fortunato Stella. Ben presto, a causa del clima non idoneo alla sua malferma salute, abbandonņ la cittą lombarda e visse alcuni anni fra Bologna, Recanati, Firenze (ove conobbe il Manzoni, il Niccolini, il Capponi, il Colletta ed il Tommaseo) e Pisa. Dal 1830 al 1833 si stabilģ a Firenze nella casa dell’esule napoletano Antonio Ranieri, che seguģ poi a Napoli.

In Napoli, in casa del Ranieri, il Leopardi concluse la sua vita terrena all'etą di soli 39 anni. Morģ infatti di asma e idropisia il 14 giugno 1837. Fu sepolto nella Chiesa di S. Vitale, ma dal 1938 le sua ossa riposano in Piedigrotta, presso la tomba di Virgilio.

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Mesazh i vjetėr 09 Shtator 2003 07:36
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Regjistruar: 05/02/2003
Vendbanimi: Rio
Mesazhe: 2547

A Silvia - Giacomo Leopardi

Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltą splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventł salivi?

Sonavan le quiete
stanze, e le vie dintorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all'opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
cosģ menare il giorno.

Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d'in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch'io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?

Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dģ festivi
ragionavan d'amore.

Anche peria tra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovanezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell'etą mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo č quel mondo? questi
i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte dell'umane genti?
All'apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.

__________________
Lo scopo della nostra vita č di servire la Forza che ci ha creati,e dalla cui misericordia o approvazione dipende il nostro stesso respiro,servendo con lealtą le Sue creature.Questo significa amore,che dovrebbe sostituire l'odio che si vede ovunque.

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Mesazh i vjetėr 24 Tetor 2003 13:08
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Regjistruar: 05/02/2003
Vendbanimi: Rio
Mesazhe: 2547

L'Infinito - Giacomo Leopardi

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di lą da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Cosģ tra questa
immensitą s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'č dolce in questo mare.

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Mesazh i vjetėr 24 Tetor 2003 13:10
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Regjistruar: 05/02/2003
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Mesazhe: 2547

Alla Luna - Giacomo Leopardi

O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l'anno, sovra questo colle
Io venia pien d'angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed č, nč cangia stile
O mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l'etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l'affanno duri!

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Mesazh i vjetėr 24 Tetor 2003 13:12
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Regjistruar: 05/02/2003
Vendbanimi: Rio
Mesazhe: 2547

Alla sua donna - Giacomo Leopardi

Cara beltą che amore
Lunge m'inspiri o nascondendo il viso,
Fuor se nel sonno il core
Ombra diva mi scuoti,
O ne' campi ove splenda
Pił vago il giorno e di natura il riso;
Forse tu l'innocente
Secol beasti che dall'oro ha nome,
Or leve intra la gente
Anima voli? o te la sorte avara
Ch'a noi t'asconde, agli avvenir prepara?
Viva mirarti omai
Nulla spene m'avanza;
S'allor non fosse, allor che ignudo e solo
Per novo calle a peregrina stanza
Verrą lo spirto mio. Gią sul novello
Aprir di mia giornata incerta e bruna,
Te viatrice in questo arido suolo
Io mi pensai. Ma non č cosa in terra
Che ti somigli; e s'anco pari alcuna
Ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
Saria, cosģ conforme, assai men bella.
Fra cotanto dolore
Quanto all'umana etą propose il fato,
Se vera e quale il mio pensier ti pinge,
Alcun t'amasse in terra, a lui pur fora
Questo viver beato:
E ben chiaro vegg'io siccome ancora
Seguir loda e virtł qual ne' prim'anni
L'amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse
Il ciel nullo conforto ai nostri affanni;
E teco la mortal vita saria
Simile a quella che nel cielo india.
Per le valli, ove suona
Del faticoso agricoltore il canto,
Ed io seggo e mi lagno
Del giovanile error che m'abbandona;
E per li poggi, ov'io rimembro e piagno
I perduti desiri, e la perduta
Speme de' giorni miei; di te pensando,
A palpitar mi sveglio. E potess'io,
Nel secol tetro e in questo aer nefando,
L'alta specie serbar; che dell'imago,
Poi che del ver m'č tolto, assai m'appago.
Se dell'eterne idee
L'una sei tu, cui di sensibil forma
Sdegni l'eterno senno esser vestita,
E fra caduche spoglie
Provar gli affanni di funerea vita;
O s'altra terra ne' superni giri
Fra' mondi innumerabili t'accoglie,
E pił vaga del Sol prossima stella
T'irraggia, e pił benigno etere spiri;
Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
Questo d'ignoto amante inno ricevi.

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Regjistruar: 05/02/2003
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Mesazhe: 2547

Passero solitario - Giacomo Leopardi

D'in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finché non more il giorno;
Ed erra l'armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell'aria, e per li campi esulta,
Sģ ch'a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli,
Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;
Canti, e cosģ trapassi
Dell'anno e di tua vita il pił bel fiore.
Oimč, quanto somiglia
Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Della novella etą dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de' provetti giorni,
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch'omai cede alla sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventł del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed č mirata, e in cor s'allegra.
Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell'aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventł vien meno.
Tu, solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura č frutto
Ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all'altrui core,
E lor fia vņto il mondo, e il dģ futuro
Del dģ presente pił noioso e tetro,
Che parrą di tal voglia?
Che di quest'anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.

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Il sabato del villaggio - Giacomo Leopardi

La donzelletta vien dalla campagna,
In sul calar del sole,
Col suo fascio dell'erba; e reca in mano
Un mazzolin di rose e di viole,
Onde, siccome suole,
Ornare ella si appresta
Dimani, al dģ di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
Su la scala a filar la vecchierella,
Incontro lą dove si perde il giorno;
E novellando vien del suo buon tempo,
Quando ai dģ della festa ella si ornava,
Ed ancor sana e snella
Solea danzar la sera intra di quei
Ch'ebbe compagni dell'etą pił bella.
Gią tutta l'aria imbruna,
Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
Gił da' colli e da' tetti,
Al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dą segno
Della festa che viene;
Ed a quel suon diresti
Che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
Su la piazzuola in frotta,
E qua e lą saltando,
Fanno un lieto romore:
E intanto riede alla sua parca mensa,
Fischiando, il zappatore,
E seco pensa al dģ del suo riposo.
Poi quando intorno č spenta ogni altra face,
E tutto l'altro tace,
Odi il martel picchiare, odi la sega
Del legnaiuol, che veglia
Nella chiusa bottega alla lucerna,
E s'affretta, e s'adopra
Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.
Questo di sette č il pił gradito giorno,
Pien di speme e di gioia:
Diman tristezza e noia
Recheran l'ore, ed al travaglio usato
Ciascuno in suo pensier farą ritorno.
Garzoncello scherzoso,
Cotesta etą fiorita
Č come un giorno d'allegrezza pieno,
Giorno chiaro, sereno,
Che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
Stagion lieta č cotesta.
Altro dirti non vo'; ma la tua festa
Ch'anco tardi a venir non ti sia grave.

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La quiete dopo la tempesta - Giacomo Leopardi

assata č la tempesta:
Odo augelli far festa, e la gallina,
Tornata in su la via,
Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
Rompe lą da ponente, alla montagna;
Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
Risorge il romorio
Torna il lavoro usato.
L'artigiano a mirar l'umido cielo,
Con l'opra in man, cantando,
Fassi in su l'uscio; a prova
Vien fuor la femminetta a cņr dell'acqua
Della novella piova;
E l'erbaiuol rinnova
Di sentiero in sentiero
Il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
Apre terrazzi e logge la famiglia:
E, dalla via corrente, odi lontano
Tintinnio di sonagli; il carro stride
Del passeggier che il suo cammin ripiglia.
Si rallegra ogni core.
Sģ dolce, sģ gradita
Quand'č, com'or, la vita?
Quando con tanto amore
L'uomo a' suoi studi intende?
O torna all'opre? o cosa nova imprende?
Quando de' mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d'affanno;
Gioia vana, ch'č frutto
Del passato timore, onde si scosse
E paventņ la morte
Chi la vita abborria;
Onde in lungo tormento,
Fredde, tacite, smorte,
Sudąr le genti e palpitąr, vedendo
Mossi alle nostre offese
Folgori, nembi e vento.
O natura cortese,
Son questi i doni tuoi,
Questi i diletti sono
Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
Č diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
Spontaneo sorge e di piacer, quel tanto
Che per mostro e miracolo talvolta
Nasce d'affanno, č gran guadagno. Umana
Prole cara agli eterni! assai felice
Se respirar ti lice
D'alcun dolor: beata
Se te d'ogni dolor morte risana.

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Il tramonto della luna - Giacomo Leopardi

Quale in notte solinga,
Sovra campagne inargentate ed acque,
Lą 've zefiro aleggia,
E mille vaghi aspetti
E ingannevoli obbietti
Fingon l'ombre lontane
Infra l'onde tranquille
E rami e siepi e collinette e ville;
Giunta al confin del cielo,
Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno
Nell'infinito seno
Scende la luna; e si scolora il mondo;
Spariscon l'ombre, ed una
Oscuritą la valle e il monte imbruna;
Orba la notte resta,
E cantando, con mesta melodia,
L'estremo albor della fuggente luce,
Che dianzi gli fu duce,
Saluta il carrettier dalla sua via;
Tal si dilegua, e tale
Lascia l'etą mortale
La giovinezza. In fuga
Van l'ombre e le sembianze
Dei dilettosi inganni; e vengon meno
Le lontane speranze,
Ove s'appoggia la mortal natura.
Abbandonata, oscura
Resta la vita. In lei porgendo il guardo,
Cerca il confuso viatore invano
Del cammin lungo che avanzar si sente
Meta o ragione; e vede
Che a sé l'umana sede,
Esso a lei veramente č fatto estrano.
Troppo felice e lieta
Nostra misera sorte
Parve lassł, se il giovanile stato,
Dove ogni ben di mille pene č frutto,
Durasse tutto della vita il corso.
Troppo mite decreto
Quel che sentenzia ogni animale a morte,
S'anco mezza la via
Lor non si desse in pria
Della terribil morte assai pił dura.
D'intelletti immortali
Degno trovato, estremo
Di tutti i mali, ritrovąr gli eterni
La vecchiezza, ove fosse
Incolume il desio, la speme estinta,
Secche le fonti del piacer, le pene
Maggiori sempre, e non pił dato il bene.
Voi, collinette e piagge,
Caduto lo splendor che all'occidente
Inargentava della notte il velo,
Orfane ancor gran tempo
Non resterete; che dall'altra parte
Tosto vedrete il cielo
Imbiancar novamente, e sorger l'alba:
Alla qual poscia seguitando il sole,
E folgorando intorno
Con sue fiamme possenti,
Di lucidi torrenti
Inonderą con voi gli eterei campi.
Ma la vita mortal, poi che la bella
Giovinezza sparģ, non si colora
D'altra luce giammai, né d'altra aurora.
Vedova č insino al fine; ed alla notte
Che l'altre etadi oscura,
Segno poser gli Dei la sepoltura.

__________________
Lo scopo della nostra vita č di servire la Forza che ci ha creati,e dalla cui misericordia o approvazione dipende il nostro stesso respiro,servendo con lealtą le Sue creature.Questo significa amore,che dovrebbe sostituire l'odio che si vede ovunque.

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Vagabonding

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A se stesso - Giacomo Leopardi

Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perģ l'inganno estremo,
Ch'eterno io mi credei. Perģ. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio č spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, nč di sospiri č degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango č il mondo.
T'acqueta omai. Dispera
L'ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donņ che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l'infinita vanitą del tutto.

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